L'AVVENTO DELLE TESTE DI MORO di Duccio DI STEFANO

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L'AVVENTO DELLE TESTE DI MORO di Duccio DI STEFANO

Golfo di Noto
Pubblicato da Duccio DI STEFANO in Miti e leggende · 12 Luglio 2020

Le Teste di Moro in foto sono acquistabili presso il Laboratorio ceramicabianca BOSCO di Ivana BOSCO in via Agrigento, 6 Siracusa oppure online al seguente link: TESTE DI MORO

Questa terra è anche una scommessa. E spesso si tramuta in una sconfitta. Nella morte quando non fa rumore. Nella nostalgia del futuro. Nell’oblio che mantiene ogni cosa intatta. E poi ti porta ad imparare cosa succede a uno che va via. Ti insegna che gli altri continuano a vivere senza di lui…
 
Il ritmo dei giorni che pretendono poco…
Ivana intinge nel rosso, respira, stabilisce una tregua alla calura e alla nostalgia, solleva il pennello e vi comincia a raccontare d'amore. O di morte. Che – a volte – è la medesima cosa. Pietra, amore, sangue, fuoco, luce, vita e morte. Tutti elementi che di questa nostra terra sono stati le viscere. Il nostro Big Ben. Il nostro inizio.
 
È proprio di uno di questi amori che lei - attraverso i suoi pennelli - vi vuole raccontare, o meglio la natura di uno di essi.



Vi parliamo di un amore antico. Un amore impossibile. Ma cinico e duro come tutti gli amori. Un amore destinato a rimanere granitico ed eterno. Fissato nel tempo. Nella pietra. Nella vastità dei secoli.                              
 
L’amore tra il Principe Kàdim, Emiro e condottiero arabo, e donna Delfina, giovine e affascinante ragazza siracusana, discendente da una nobile famiglia d’origine bizantina.
 
Già a partire dal ‘600, infatti, la Sicilia aveva subito molte incursioni da parte dei Saraceni, e cioè di quei fieri e temibili pirati del deserto di fede musulmana, che inizialmente si erano attestati solamente sulla sponda africana del mar Mediterraneo, ma in seguito mossero a un piano d’invasione che si rivelò poi inarrestabile,  e che portò alla conquista della Spagna prima e delle isole di Malta e Pantelleria dopo. A quel punto restava solo la Sicilia, ritenuta strategica per il controllo totale del Mediterraneo a discapito dei rivali Bizantini, e quindi iniziarono un assedio tambureggiante che portò una ad una tutte le città dell’isola a capitolare sotto quella tempesta araba che depredava, razziava e schiavizzava chiunque osava opporvi resistenza. Restava però da abbattere lo scoglio più grande, e cioè la resistenza di Siracusa, allora capitale bizantina dell’isola e forte di una flotta navale che non aveva rivali in tutto il Mediterraneo. Iniziò quindi un terribile assedio, che durò più di un secolo e mezzo, nel quale la formidabile resistenza siracusana aveva costretto i rivali berberi a far arrivare di volta in volta sempre più rinforzi dall’Africa. Ma solo con l’abile condottiero Kàdim Assad, Principe d’Egitto, la resistenza di Siracusa cadde, a oltre mezzo secolo dal primo sbarco, consentendo finalmente agli arabi di insediarsi pure in Sicilia, e Palermo fu così eletta a capitale della Sicilia islamica.


 
Kàdim non era un condottiero come gli altri, non voltava mai le spalle al nemico. Fiero ed elegante come pochi, si ribellò all’ordine dei suoi Califfi, che – inizialmente - perdurando le numerose e continue perdite umane durante il lungo conflitto, gli avevano intimato di recedere. Ma lui rispondette a muso duro ai suoi superiori, e anzi intensificò ancor di più gli attacchi cingendo d’assedio la città per mare e per terra, fino a quando non ebbe finalmente la meglio. Una volta piombato sulla città, il Principe portò avanti la sua orgogliosa lotta dell’Jihad, e cioè quello sforzo spirituale che i musulmani mettono in atto per avvalorare le loro guerre sante atte a convertire nuovi adepti e martiri ad Allah.
 
Il Principe Kadim Assad, prode Emiro d’Alessandria, era un uomo alto, possente e fiero. Bello della sua pelle ambrata e affascinante nel suo mantello, adornato da un turbante rosso sgargiante, intarsiato di verde smeraldo e contornato da luccicanti orpelli e dardi dorati. Sul capo teneva una scintillante corona che portava con sé i colori della sabbia del suo deserto, ed era impreziosita e arricchita da tanta Storia e tanta gloria. Il suo viso era duro, ma aveva  gli occhi verdi, profondi come il mare e decisi come la pietra. Il suo verbo era saggio come la sua terra, la sua barba rifinita con attenta cura e amava sfoggiare collane e anelli impreziositi da pietre e gemme ancora sconosciute al di qua del mare. Le orecchie forate e abbellite da vistosi anelli, le spalle larghe, il passo deciso, la lingua sconosciuta e forte nella sua affascinante pronuncia. Una pronuncia quasi gutturale che alle orecchie intimidite e curiose dei locali sembrava fosse impastata dalla sabbia del Sahara.



Poteva, un uomo così, non far cadere più d’una donna ai suoi piedi? Ma certo che no! È pur vero che questi eleganti predoni del deserto ovunque arrivavano saccheggiavano dei beni, uccidevano i rivoltosi e si impossessavano delle loro donne, mogli e figlie, soprattutto quelle più giovani e belle, per farle loro schiave e per portarsele con sé, arricchendo ancor di più il loro già numeroso harem. Quindi volente o nolente queste giovani spesso rimaste orfane dovevano comunque assoggettarsi alla volontà dei nuovi padroni. Però vien da sé che in molte di queste fanciulle, anche se non costrette, scattava quella sorta di invaghimento dovuta all’ammirazione e allo straordinario e irresistibile fascino dato dal carisma  e al magnetismo spirituale dei quali quegli emiri abbondavano già di loro, visti dagli astanti con quell’aura intimistica e misteriosa. E quindi qui cascava l’asino. Il gioco era presto fatto. Infatti, donna Delfina, nobile progenia di un’antica famiglia bizantina, tra quelle più nobili e più in vista a Siracusa, sarebbe potuta scampare alla tratta delle schiave, in quanto nonostante i suoi genitori e i suoi sei fratelli caddero sotto le spade dei Saraceni, le venne in soccorso il vicino monastero di clausura delle suor francescane, offrendole la salvezza. Ma la giovane donna non riuscì a resistere al fascino di quel bel Principe, e così cedette al suo volere, facendosi travolgere da quell’amore selvaggio, forte e viscerale. E illusa che le sue grazie fossero le sole a incendiare le notti del bel Kàdim, potete immaginare quanto fu il suo dolore quando, una mattina, aveva inavvertitamente ascoltato un ambasciatore persiano che portava le ultime notizie provenienti dall’harem del Principe, il quale veniva esortato a tornare presto in patria per sedare una rivolta delle sue innumerevoli mogli. Ma lei non gliene dette il tempo. Quantunque sconvolta dalla notizia appresa, che le aveva in un attimo infranto un sogno, escogitò un piano diabolico per mettere in atto la sua terribile vendetta. E facendo tesoro di tutte le sue ars amatorium, diede sfoggio di ogni sua dote da seduttrice, facendosi trovare agghindata e profumata come neanche Afrodite sarebbe riuscita a fare, e lo concupì trascinandolo in un’infuocata notte di passione. Fu una notte lunga, calda e travolgente. Una di quelle che il Principe non avrebbe mai dimenticato, se non fosse che quella sarebbe stata anche la sua ultima notte. Perché prima dell’alba, quando ancora il valoroso condottiero arabo dormiva profondamente al suo fianco, donna Delfina estrasse dalla sua uniforme la spada dell’uomo e facendo ricorso a tutte le forze che aveva e anche a quelle che non sapeva di avere, lo trafisse a morte. Uno, dieci, cento colpi di quella spada le affondò in petto, e non contenta ancora della sua vendetta, con un ultimo colpo ben assestato, le mozzò di netto la testa! E forse ancor in preda della sua cieca e folle sete di vendetta, raccolse la testa del suo amato, la riversò in un vaso di terracotta, la riempì di terra e in preda alla collera la espose sul davanzale della casa, in modo che tutti potessero vedere quanto grande era stato il dolore che quell’uomo le aveva inferto e di conseguenza quanto enorme fu la sua vendetta! Ma una volta scemati ed evaporati i fumi di collera, quando lei rinsavì e tornò in sé, si rese conto di quello che aveva fatto, e il peso di quella tragedia era probabilmente troppo grande da  sopportare per le sue esili spalle da adolescente, che peraltro era anche rimasta da sola col suo rimorso, e allora con la stessa spada con la quale si era fatta giustizia dell’uomo, si trafisse a morte e si lasciò morire sullo stesso davanzale, a fianco del vaso. Neanche il giorno nuovo era ancora arrivato, e la furia d’amore aveva fatto scempio di due corpi, giovani e forti. L’eros che dalle viscere proviene, nelle viscere tende a finire…



La leggenda narra che dall’indomani, quel vaso rudimentale e approssimativo che la donna aveva creato, fu inspiegabilmente quello che portava alla vita e alla luce il basilico più florido e più buono della città. E da allora, nel corso dei secoli a venire, tutte le donne che avevano saputo di quella storia, commissionavano agli artigiani vasai due vasi d’argilla con le fattezze dell’Emiro Kàdim Assad, Principe d’Egitto e della sua  giovane e valorosa amante, donna Delfina, per poter così esporre sui davanzali quei vasi che a dire di tutti sarebbero stati i più ricchi e i più belli.
 
Una leggenda macabra, certo, ma - se vogliamo - contiene anche un messaggio di speranza. Soprattutto per questa terra, che è una terra dove tutto sembra perfetto e idilliaco per aggiustare l’aggiustabile e per sanare il sanabile. È soprattutto la terra che ti spiega come è formata esattamente la fragilità degli uomini e come può esplodere così, tutta in una volta, alla soglia della resa dei conti. E’ il luogo dove le pietre ti raccontano la loro vita da spettatori millenari e ti ricordano che tra sentieri d’ortica spinosa, piante di menta selvatica e profumo di zagara, la vita e la bellezza rinasce sempre! E rinasce tra avventure primordiali, per mezzo dell’energia della nostra luce e con la spinta della propria forte interiorità, facendosi lentamente cullare dall’inquietante meraviglia del mondo!
 
Dopotutto, è questa la bellezza. È questo il vero senso dell’esistere. E questo è anche quello che i pennelli e i colori di Ivana vi vogliono trasmettere. Ogni giorno. Tutta la bellezza della vita!


Duccio DI STEFANO


Duccio Di Stefano nasce a Siracusa, il 04/04/1969. Sposato con Ivana e padre di Bianca e Susanna, vive a Siracusa dove insieme alla moglie produce e commercializza manufatti di maioliche artistiche decorate a mano. Da sempre appassionato degli scrittori"carnali", di origine Mediterranea e latina in generale, scrive soprattutto poesia e prosa legata alle sue origini e alle tipicità del suo territorio. Inizia scrivendo per testate giornalistiche e gruppi editoriali locali, pubblica poi poesie e racconti su alcune antologie edite dalla collana Riflessi prima e dal Concorso Letterario Internazionale Inchiostro e Anima poi. Grande tifoso della squadra di calcio della sua città, il Siracusa, presta la sua collaborazione al quindicinale siracusano LA CIVETTA di Minerva, nella quale cura la redazione sportiva ma sovente vi scrive pure di temi sociali, di integrazione e delle problematiche del suo quartiere, la Borgata. Nell'aprile del 2018 pubblica il suo primo romanzo, Angelo di Pietra, edito dalla Carthago Edizioni, che è stato presente al Salone del libro di Torino dello stesso anno e successivamente gli fa attribuire svariati premi, portandolo su e giù per l'Italia per le relative presentazioni e mostre letterarie.



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