"Il toro bisonte" di Duccio DI STEFANO
Pubblicato da Duccio DI STEFANO in Due passi nella nostra magica terra · 13 Novembre 2020
Era bello ogni tanto per noi andare a vedere il Toro Bisonte.
Per noi bambini - che ai primi anni ’80 il massimo della tecnologia lo avevamo nei raggi delle bici, dove avevamo attaccato con una molletta da bucato un pezzettino di latta affinché ad ogni pedalata partiva un rombo simile a quello delle moto – andare a trovare Rann’Angilu (don Angelo, pronunciato e storpiato così dai pards di campagna) era ogni volta una gran festa. Innanzitutto la sua tenuta, avvistata da lontano una volta imboccata la stradina stretta e pietrosa, ci appariva già come un posto fantastico, uno di quei ranch che solitamente potevamo vedere solo nei western in TV. Un grande casale, a tre piani, dalle grandi e luminose finestre, con accanto uno spazio adibito al forno di pietra dove lui ogni tanto vi preparava anche la ricotta e il formaggio, e adiacente una grande stalla dove teneva le sue mucche, i suoi cavalli ed i vitelli. Sul retro invece una grande distesa di terreno, che gli serviva sia per i suoi raccolti (angurie, melenzane, meloni, peperoni e zucchine), sia per far pascolare liberamente il bestiame.
Alla finestra, solitamente, ci trovavi affacciata Ronna Brigida, come lui stesso chiamava sua moglie, che ci dava il benvenuto accogliendoci col suo immancabile e largo sorriso da buona massaia. Spesso capitava che ci offrisse pure qualche fetta di quel buon pane di casa appena sfornato e cunzato con olio, origano, sale, peperoncino rosso e pecorino, rallentando così la nostra vera missione. Sull’altro lato c’era la cisterna, dove file di macchine si recavano liberamente per riempire secchi, bidoni e quant’altro avessero a portata di mano per fare scorta di quell’acqua che (senza alcun controllo) buona a tutti ci pareva, altro che Rocchetta. E noi, straviando le biciclette e appoggiandole al primo muretto a secco che ci capitava a tiro, correvamo dietro il recinto (cercando di evitare quelle enormi mousse al cioccolato che le bestie lasciavano lungo il loro cammino) il più velocemente possibile, nella speranza di non essere beccati dal ranchero che ci avrebbe fatto anche lui perdere un mucchio di tempo a… «Fraccattinoo..» Troppo tardi! Nulla sfuggiva a Rann’Angilu (chiamato anche “u rausanu”, per via delle sue provenienze geografiche). Ci aveva già avvistati, e quello, “fraccattino”, era il nomignolo che appioppava ad ognuno di noi piccola marmaglia, senza preoccuparsi così di sbagliarci il nome. Viene da fracco, magro. Termine che i pastori usavano per i capi più smilzi, più scarsi. Quelli inutili, insomma. «Ma nunn’aviti chiffari, ah? Viniti cà ca vi fazzu biviri nù poco ri latti frisco frisco!» Era un uomo d’una generosità mai vista. Lui godeva se riusciva ad offrire e a donare qualcosa si sua produzione a chiunque lo andasse a trovare, a maggior ragione a noi, carusi rò baggio, che eravamo i figli dei suoi uomini, di quei fedeli amici che erano sempre pronti sia a dargli una mano d’aiuto nel difficoltoso lavoro nei campi, sia quando – la sera – stanchi dal lavoro, si riunivano sotto il pergolato dell’ulivo o del carrubo per una partitella a briscola in cinque, il suo gioco preferito. Ed era uno spettacolo assistere anche a quelle partitelle infinite, “colorate” ad ogni epilogo da commenti e improperi da opera dell’Arte. Era un fenomeno pure là: cioè, riusciva a ricordarsi di tutte le carte che uscivano alla perfezione, dopo due mani infatti sapeva già perfettamente che carte ci avevano in mano i suoi avversari, e non sbagliava mai una mossa. Un autentico fuoriclasse!
Lo vedemmo spuntare all’orizzonte, con la sua tipica camiciola a quadrettini, aperta sul petto e legata alla vita, come usavano una volta i contadini. Un uomo forte, sulla quarantina, non molto alto ma duro, tosto, un torello insomma. I capelli sul riccio, coperti da quella fuliggine che la strada non asfaltata offriva abbondantemente agli astanti, ogni volta che un’automobile o similari ne calpestasse il suolo polveroso e pietroso. Il sorriso sempre stampato sul volto, la battuta sempre pronta, la mascella volitiva, sempre rasato di fresco, le braccia forti ed il passo svelto. Un autentico cowboy dei nostri tempi, compreso quel puzzo di mucche misto a formaggio che lo precedeva ogni volta che si avvicinava. Praticamente era il suo annunciatore personale di corte! Si era premunito di un paio di scodelle con il latte appena munto dalle mucche, e come al solito ce lo offriva, aspettando che ce lo scolassimo sino all’ultima goccia. Era buonissimo quel latte, forte, intenso, aromatizzato, sembrava già col cioccolato aggiunto, non c’era bisogno di nessun altro tipo di lavorazione. Un sapore che se chiudo un attimo gli occhi lo sento ancora, indimenticabile! Un sapore che porterò sempre con me. Ed il sapere che lo aveva appena munto apposta per noi, mi intenerisce ancora adesso. Però il nostro pensiero era un altro, avevamo come al solito un’altra priorità, tutto il resto veniva dopo, e cioè era quello di arrampicarci alla staccionata della stalla, nel suo spazio esterno, per poter vedere da vicino il tanto temuto e amato Toro Bisonte, come lo chiamavamo noi. Era un toro? Un manzo? Un grosso vitello? Non lo abbiamo mai saputo, ma per noi era solamente un gigante di dimensione piratesca, o almeno era questa l’impressione che faceva a noi picciriddi. Era così possente, maestoso e ben piantato a terra che noi lo chiamavamo col rafforzativo di Toro Bisonte, creando così una nuove specie di animale della prateria.
Vuoi mettere la paura che incute la parola Toro Bisonte? « Senti quanto possenza cià Kevin, senti che importanza» recitava Verdone in uno dei suoi film quando voleva convincere la moglie, Jessica, a scegliere Kevin come nome per un loro eventuale figlio maschio. E così era per noi. Quello era il nostro Toro Bisonte, e di tanto in tanto, quando durante quei lunghi e soffocanti pomeriggi d’estate il caldo languore del baggio tutto soverchiava, bisognava che si andasse a trovare…
Ogni tanto, anche ora, d’estate, mi avventuro con le mie bambine lungo quella stradina sconnessa che allora mi sembrava il viatico verso il Paradiso, ma il trovarla così, abbandonata, avvolta nel più triste dei silenzi, arrivare fino alla tenuta, dove ormai solamente alcuni cani randagi fanno da guardiani a quei muri scalcinati e silenziosi e a quelle scale, da dove una volta arrivava Rann’Angilu con le sue scodelle colme di quel latte caldo e cremoso, ebbene - questa sensazione da day after - mi mette un magone senza fine. L’atmosfera è terrea, algida, i rovi s’innalzano col vento e roteano a mezz’aria, il vento che passa dalle finestre dello scheletro abbandonato di quello che era il nostro Falcon Crest, assume un boato sinistro, funereo. Le stalle sono vuote e diroccate, e le carcarazze starnazzano a piacimento, tanto che mia figlia mi dice «papà andiamocene, qui ci sono i fantasmi…» Ha ragione: li sento anch’io tutti quei fantasmi… la voce della signora che ci dà il benvenuto dal balcone, il vociare della gente che vi si trovava sempre numerosa, chi per l’acqua, chi per il formaggio, chi per gli ortaggi, i benvenuti caciaroni e festosi del nostro cowboy, le innumerevoli specie di animali che richiamavano la nostra attenzione… dove sono finiti tutti? E soprattutto… che fine ha fatto il nostro tanto amato e temuto Toro Bisonte?
Mi è capitato d’incrociarlo in città, Rann’Angilu u rausanu, ora ottantino, chino sulla schiena, che camminava lento e dimesso sul marciapiede, tenendo in mano una busta dell’Hard Discount, silenzioso, come a non voler dar fastidio a nessuno. Come a volersi nascondere… come mi appare fragile, adesso il fracco è lui, che una volta ci appariva forte come una quercia e acuto come un’aquila.
Adesso era un vecchietto come un altro, senza la sua camiciola a quadri aperta sul petto e legata alla vita. Senza il suo luminoso sorriso, senza la sua forza data dalle zolle di sterco che calpestava sulla sua terra. Ora non è più preceduto dal puzzo di mandria e di formaggio, ma non m’ha riconosciuto. A lui che una volta non scappava neanche una carta dal mazzo, adesso probabilmente non riconosce più le persone. Magari esagero, magari lui se la vive bene questa nuova dimensione da pensionato metropolitano. Ma a me purtroppo dà come l’impressione di un Superman senza il suo mantello. Che ci posso fare. E quanto darei per sentire ancora una volta bella, assordante, fragorosa quella sua vociona forte e squillante che non appena scorto da lontano mi urla: «Fraccattinoo…»
Duccio DI STEFANO
Duccio Di Stefano nasce a Siracusa, il 04/04/1969. Sposato con Ivana e padre di Bianca e Susanna, vive a Siracusa dove insieme alla moglie produce e commercializza manufatti di maioliche artistiche decorate a mano. Da sempre appassionato degli scrittori"carnali", di origine Mediterranea e latina in generale, scrive soprattutto poesia e prosa legata alle sue origini e alle tipicità del suo territorio. Inizia scrivendo per testate giornalistiche e gruppi editoriali locali, pubblica poi poesie e racconti su alcune antologie edite dalla collana Riflessi prima e dal Concorso Letterario Internazionale Inchiostro e Anima poi. Grande tifoso della squadra di calcio della sua città, il Siracusa, presta la sua collaborazione al quindicinale siracusano LA CIVETTA di Minerva, nella quale cura la redazione sportiva ma sovente vi scrive pure di temi sociali, di integrazione e delle problematiche del suo quartiere, la Borgata. Nell'aprile del 2018 pubblica il suo primo romanzo, Angelo di Pietra, edito dalla Carthago Edizioni, che è stato presente al Salone del libro di Torino dello stesso anno e successivamente gli fa attribuire svariati premi, portandolo su e giù per l'Italia per le relative presentazioni e mostre letterarie.