FACCI DISPIRATA di Duccio DI STEFANO

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FACCI DISPIRATA di Duccio DI STEFANO

Golfo di Noto
Pubblicato da Duccio DI STEFANO in Miti e leggende · 22 Giugno 2020
Da un po’ di tempo a questa parte, ogni volta che la stagione estiva fa capolino, nell’isolotto di Ortigia si approntano una serie di variegati e diversi solarium, e cioè di strutture in legno montate sugli scogli dove gli astanti, per di più i turisti che lì alloggiano nei tanti alberghi della zona, ma anche molti locali, possono attrezzarsi con telo e costume ed usufruire delle limpide e azzurre acque  che circondano il centro storico Aretuseo.


Foto di Duccio DI STEFANO

Ma fino a circa mezzo secolo addietro, in Ortigia, per questo c’era solamente il Nettuno. Il Nettuno era infatti il primo e l’unico balneatoio dei siracusani, uno stabilimento balneare nel cuore dello “scoglio”, posto alla fine della Via Maestranza, tirando dritto da Piazza Archimede, su quell’ampio spazio che si apre in fondo alla “Masciarua” (cioè “strada maestra”), che oggi è detto “Belvedere San Giacomo”. Ma per tutti i siracusani, specie quelli di una certa età, quella scogliera è sempre stata invece à“facci dispirata”.
Quindi per facci dispirata si intende solo il luogo dove esisteva questo stabilimento balneare, Il Nettuno appunto, gestito da don Severino da tutti meglio conosciuto per “culu ‘i truscia”, poiché un tempo non si conosceva il vero cognome delle persone, ma solo il loro soprannome, o meglio a’ngiuria, un appellativo che si affibbiava a seconda delle particolarità fisiche o caratteriali del personaggio, che poi rimaneva tale per sempre. Non si scappa! E quindi, don Severino culu i’truscia evidentemente era chiamato così per le dimensioni “importanti” del suo posteriore. Ed era colui che affittava quelle primitive cabine in legno che servivano per fare cambiare i bagnanti dell’epoca.


Lido Nettuno. Realizzazione grafica di Sebastiano SEGGI

Ma perché facci dispirata? Cos’era che aveva dato un nome così lugubre ed inquietante ad un luogo che invece appare così bello?
Vox populi racconta che proprio in quell’Eden acquatico, tanto tempo prima, si era consumata una  tragedia, una doppia terribile tragedia.
Nelle vicinanze di quello spiazzo c’è il popolare quartiere della Graziella (o “da Raziedda”, secondo il dialetto locale), detto così perché vi si venerava soprattutto la “Madonna delle Grazie”, che era anche la protettrice dei marinai. Allora era infatti una grande grazia quando uno poteva da lì partire e recarsi a pescare, ma soprattutto quando poteva ritornare incolume con la propria barca piena di pesce. E quelli che ci vivevano con le loro famiglie erano per di più dei pescatori, perché generalmente era il porto piccolo che ospitava le barche da pesca, anche perché posto più vicino al mare aperto. I più anziani, che non salivano più in barca, ci mandavano i propri figli e rimanevano a terra per stendere le reti ad asciugare oppure all’occorrenza per rattopparle.
Tanuzzu Pilastru, un giovane chiamato così perché fisicamente somigliava ad una colonna, era tra i più robusti, tenaci e instancabili pescatori dell’epoca. Non conosceva riposo, andava a pescare categoricamente tutti i giorni, sia che fosse una giornata d’agosto, sia che fosse la più fredda giornata d’inverno. E il motivo di non perdere neanche un giorno di lavoro in effetti c’era. Si era sposato infatti da tre anni con la figlia di Compari Cirinu ‘u Tacciaru, Mariuzza, una povera ragazza rimasta orfana di madre fin dalla più tenera età, ma “ bedda comu u suli”, di una dolcezza e di una bontà che a tutti pareva una Madonna. Però la sua delicatezza nascondeva pure una salute piuttosto precaria e bisognosa quindi sempre di cure e medicine. Per questo, forse, non aveva avuto ancora la forza di fare un figlio. Però un bel giorno finalmente Mariuzza era uscita incinta e figuratevi l’esultanza di Tanuzzu quando la moglie gli rivelò di aspettare una creatura! I loro sogni stavano quindi per realizzarsi, ma ovviamente i soldi che fino ad allora il buon Tanuzzu riusciva a ricavare dalla sua pesca quotidiana, da lì a breve non sarebbero più bastati. Anche perché la giovane coppia, una volta accertato lo stato di gravidanza, aveva da subito cominciato a ristrutturare il vecchio basso per ingrandire la casa prima che nascesse il bambino. Pure il nome gli avevano già scelto, qualora fosse stato un maschietto, e cioè Vastianeddu, il nome del padre di lui, che lo aveva lasciato orfano da bambino per un male incurabile, costringendo il buon Tanuzzu, figlio unico, a lasciare presto la scuola per andare subito a lavorare e portare il pane alla madre.


Foto di Ettore SPICUGLIA

Quindi ancor di più il giovane non voleva sentir ragioni, e ogni sera, sia che fosse serena o anche lastricata da nubi scure, lui attrezzava la sua barca e prendeva il largo, per calare le reti dove sapeva lui e dove gli altri non arrivavano, perché nessuno remava con la forza e la l’energia che aveva lui.

Era una sera di dicembre, e il vento, dopo la festa di Santa Lucia, gonfiava sempre più le onde che s’inarcavano nel cielo scuro come fossero lingue di draghi, tanto che la maggior parte dei poveri pescatori quella sera dovettero accontentarsi di calare i “ rizzi, senza allontanarsi molto dalla costa. Ma Tanuzzu no! Tanuzzu aveva bisogno di pesce, aveva bisogno di denaro più degli altri, perciò non c’era mare che potesse farlo dissuadere dall’andare ai soliti posti che sapeva solo lui e dove gli altri non osavano andare. Però da lì ad un paio d’ore si scatenò un furioso acquazzone, e l’urlo del vento si sollevò ancora più possente e minaccioso.


Foto di Duccio DI STEFANO

Gli altri pescatori fecero appena in tempo a rientrare, qualcuno lasciando in acqua le proprie reti, con la speranza di andarle a recuperare l’indomani quando il tempo si fosse rimesso. Ma Tan
uzzu invece prese il largo, come sempre. Mariuzza, già dai primi rombi di tuono che sembravano squarciare il cielo, aveva cominciato a pregare la Madonna, e non si sa quanti Padre Nostro e Ave Marie disse quella notte, raccomandandosi al cielo che gli facesse la grazia anche quella volta di fare tornare il suo uomo sano e salvo, con pesce o magari senza. A quel punto il pescato non aveva più alcuna importanza. Le ore passavano e il maltempo non accennava a imbonirsi. Mariuzza allora decise di andare a fargli l’incontro, come qualche volta aveva fatto, quando la salute e il tempo glielo avevano permesso. E quanta gioia la coglieva ogni volta nel riabbracciarlo, quando lo incontrava che avvolgeva la fune alla bitta del molo per ormeggiare la sua barca, felice di rivederlo e di sentirgli dire che la pesca era stata abbondante!  E così fece. Si precipitò al solito molo dello sbarcadero,e ad ogni pescatore che vedeva rientrare faceva la solita domanda: «Âtu vistu a Tanuzzu?» « Nuttata d’infernu è chista, figghia mia!» Si sentiva rispondere. E allora, sempre più terrorizzata, si mise a correre verso il punto dove sapeva che si poteva intravedere lontano, piccolo come una lucciola, il barlume del lume che Tanuzzu portava sempre con sè in barca, nella speranza d’intravvedere quella luce che le avrebbe riportato il marito sano e salvo. Anche lì incrociò un altro vecchio collega di Tanuzzu, e alla solita domanda:«Âtu visto a Tanuzzu?», stavolta si vide rispondere:«Tanuzzu?! Poviru figghiu! Visti ant’ura ca ‘u lumi si stutò! Vatinni a’ casa, figghiuzza, vatinni!» E gli vide fare il segno della croce. A quel gesto del pescatore alla giovane sventurata le si raggelò il sangue, lanciò un urlo disperato che squarciò le tenebre, come quello di un animale colpito a morte, e si mise a correre a più non posso, senza meta, senza senso, senza fermarsi mai. E senza che se ne fosse avveduta, arrivò di schianto fino al parapetto con una forza d’urto tale che il gracile corpo rimbalzò letteralmente sulla staccionata scavalcandola di soppiatto e precipitando giù negli scogli! L’ultima persona che la vide fu appunto quel vecchio pescatore, che raccontò di non aver mai visto in vita sua una faccia più disperata di quella che aveva quella povera donna nel momento in cui si rese conto che il suo Tanuzzo non sarebbe mai più tornato tra le sue braccia. E l’eco di quei racconti, di quella figura sconvolta, che correva lungo il molo col volto trasfigurato dalla disperazione, passò di bocca in bocca, tanto che qualcuno giura che ancora oggi, nelle notti in cui la tempesta infuria di più, si intravvede ancora su quel molo l’ombra di una donna incinta che corre urlando con la faccia disperata.
Una sola cosa è certa: dopo qualche giorno, quando il mare aveva ritrovato la sua impassibile flemma, la risacca aveva trascinato i corpi, esanimi e privi di vita, di due giovani, un uomo e una donna. Li aveva adagiati con dolcezza lì, uno accanto all’altra, come stretti in un abbraccio, proprio nel punto dove don Severino culu i’truscia molti anni dopo eresse il primo stabilimento balneare cittadino, il Nettuno. Nel meraviglioso Belvedere San Giacomo… anzi, no. A facci dispirata!


Foto di Duccio DI STEFANO

Duccio DI STEFANO


Duccio Di Stefano nasce a Siracusa, il 04/04/1969. Sposato con Ivana e padre di Bianca e Susanna, vive a Siracusa dove insieme alla moglie produce e commercializza manufatti di maioliche artistiche decorate a mano. Da sempre appassionato degli scrittori"carnali", di origine Mediterranea e latina in generale, scrive soprattutto poesia e prosa legata alle sue origini e alle tipicità del suo territorio. Inizia scrivendo per testate giornalistiche e gruppi editoriali locali, pubblica poi poesie e racconti su alcune antologie edite dalla collana Riflessi prima e dal Concorso Letterario Internazionale Inchiostro e Anima poi. Grande tifoso della squadra di calcio della sua città, il Siracusa, presta la sua collaborazione al quindicinale siracusano LA CIVETTA di Minerva, nella quale cura la redazione sportiva ma sovente vi scrive pure di temi sociali, di integrazione e delle problematiche del suo quartiere, la Borgata. Nell'aprile del 2018 pubblica il suo primo romanzo, Angelo di Pietra, edito dalla Carthago Edizioni, che è stato presente al Salone del libro di Torino dello stesso anno e successivamente gli fa attribuire svariati premi, portandolo su e giù per l'Italia per le relative presentazioni e mostre letterarie.




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