A spirduta

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A spirduta

Golfo di Noto
Pubblicato da Duccio DI STEFANO in Miti e leggende · 19 Aprile 2020
A spirduta

Nel cuore di Ortigia, c’è un vicolo che congiunge la centralissima piazza Archimede con la via dei Mergulensi, la via Anacreonte, ma se andassimo in giro a Siracusa cercandola con questo nome, non troveremmo alcuna risposta. Ma se invece chiediamo in giro della Spirduta, ecco allora che tutti ci indicheranno quello spiazzo con un ingresso quasi nascosto, con un ameno terrazzo che si affaccia protetto e luminoso su un cortile fiorito. Questo è il cortile che si apre su via dei Mergulensi, che qui si fa piazza, e custodisce i ricordi d’infanzia di molti ortigiani. Vi è infatti un suggestivo affaccio sulla normanna via Mirabella, fra chiese e monasteri, sorti quasi in segreto, in seguito al sovrapporsi di abitudini e costumi settecenteschi e ottocenteschi. Il quartiere in questione è precisamente quello dove si trova il palazzo Montalto, quell’edificio dalle finestre trifore e bifore che in parte sporge su piazza Archimede, collegato tramite un corridoio corto e stretto. E qui, a cavallo fra storia antica e storia recente, tra realtà e chiacchiericcio, tra miti e leggende, che troviamo La spirduta.



Al sentirlo nominare così sembrerebbe trattarsi di una persona che si fosse sperduta, dispersa cioè,  dal verbo “spèrdiri”. Invece no, spirduta questa volta in siciliano significa “spiritata”, cioè diventata “spiddu”, fantasma! La leggenda infatti vuole che qui, una mattina molto remota dal nostro tempo, vi fu trovata all’alba una donna impiccata. Omicidio? Suicidio? Se ne discute ancor oggi! E se ci fosse già stato Carlo Lucarelli e Barbara D’Urso, ne avrebbero fatto puntate su puntate in TV. Ma cosa successe veramente? Quello che si sa è che una mattina, e precisamente nella mattinata di Santa Lucia, giorno di festa dunque per tutti i siracusani, un uomo, un pescatore per la precisione, cumpari Janu, corse alla caserma dei Carabinieri e disperato denunciò: «Viniti, curriti, mè mugghieri è appinnuta a nà corda… curriti!» e gli agenti della benemerita, che si mobilitarono accorrendo all’abitazione di quell’uomo, si trovarono effettivamente di fronte a quel tetro spettacolo, quello cioè di una povera donna, ancora in veste da notte, che penzolava tra le folate di vento, appesa per il collo alla ringhiera del balcone tramite un uncino legato ad una robusta lenza da pesca.
Quindi la prima facile versione che venne in mente ai militari dell’Arma fu quella di trovarsi davanti al triste scenario di un suicidio. E quella fu la versione che il vedovo, cumpari Jano, tentò infatti di avvalorare, portando in racconto tutta l’amarezza di una giovane donna costretta a passare quasi tutte le sue notti in solitudine poiché il suo uomo, che di mestiere faceva il pescatore, era costretto a lasciare il talamo nuziale alla buon’ora per fare ritorno solamente dopo l’alba. E – sempre secondo la ricostruzione che il nostro pover’uomo fece ai carabinieri – soprattutto quel giorno, quello di Santa Lucia, il peso della sua solitudine doveva sembrarle ancora più insopportabile, visto che fu costretta anche quella sera a recarsi da sola in chiesa, a seguire i Vespri, come ogni brava donna devota della Santuzza è solita fare. E quindi il movente del misfatto, sia per il vedovo, sia per gli inquisitori, fu presto trovato: suicidio da depressione causata da uno stato di solitudine forzato e prolungato!



Ma come spesso succede, le chiacchiere di quel piccolo quartiere andarono presto galoppando verso altre direzioni, verso nuove e più sfrontate verità. E cioè che il motivo di quella morte era in verità un altro, e che ad uccidere la povera donna non era stata la solitudine, come voleva far credere il marito, bensì l’esatto contrario. Le malelingue raccontavano infatti che era appunto quel letto nuziale, che cumpari Janu diceva di lasciare freddo e spoglio, che invece si abitava alla sua uscita di casa, e che piuttosto si riscaldava molto frequentemente. Don Libboriu, infatti, era da tutti considerato l’amante di donna Lucia, e da qualcuno dei ben pensanti venne fuori una versione diversa dell’accaduto di quella notte. E cioè che anche quella sera, la sera dei Vespri, non appena cumpari Janu lasciò la casa per andare come al solito a pescare, don Libboriu raggiunse la sua concubina che in verità in chiesa non era mai andata, ma si era invero piacevolmente intrattenuta a letto con lei, ben sapendo che il marito sarebbe tornato solo nelle mattinate. Ma invece il destino volle che quella notte doveva andare diversamente. E infatti, forse perché l’indomani era la festa di Santa Lucia, la barca di cumpari Janu di pesce ne prese molto presto in abbondanza, e quindi era tornato poco dopo la mezzanotte. Donna Lucia però aveva sentito il rumore che veniva dalla scala, e aveva fatto fuggire in fretta e furia l’amante, dalla porta segreta - che in quei palazzi ce n’era sempre qualcuna - ma non così in fretta, tanto che cumpari Janu, con la coda dell’occhio, riuscì a scorgere un’ombra. E menomale che non riuscì ad individuare il volto di quell’uomo che ancora in mutande si dava alla fuga, perché –conoscendo il carattere fumantino del pescatore- sicuramente quel giorno di cadaveri appesi a penzoloni dal balcone ce ne sarebbero stati due.



E alla domanda incalzante di chi fosse quell’ombra che veloce era sgattaiolata via, la moglie cercò di evadere tentando di usare le sue spiccate doti di ammaliatrice, e visto che in sostanza era già pronta all’uso, cercò di ammorbidire il marito con l’arte amatoria: «Ma nuddu jera, cu ava ssiri.. veni cà e abbrazzimi forti...» Ma stavolta quelle sue doti non bastarono a distogliere il marito dal suo atroce sospetto, tanto che le risposo furioso: «Seee… e allura chi ci su i spiddi n’dà sta casa? Se nun mi rici subitu cu jera, a tìa ti ci fazzu divintari nù spiddu!» Alle confuse e deboli risposte della consorte, cumpari Janu diventò una bestia e afferrato i suoi attrezzi da pesca, inscenò cinicamente quel suicidio, ben sapendo che se l’avesse uccisa di botte come il suo feroce istinto gli suggeriva, ben presto i carabinieri avrebbero riconosciuto la morte per percosse, e per lui non vi sarebbe stato scampo. Invece così facendo credeva di poterla fare franca. Ma se in effetti la fece franca per la legge, nulla ci poté  per la sua coscienza.
Infatti –continua la leggenda- nonostante per gran parte della città s’era sparsa la voce che la signora si era ammazzata a causa di un colpo di fuddhania (e cioè di pazzia), per il vedovo pescatore iniziò invece l’inferno. Ogni notte infatti aveva degli incubi spaventosi, tanto che dichiarava che ogni volta che apriva gli occhi, vedeva lì, seduta nel letto accanto a lui, lo spiddu della moglie che lo guardava fisso con l’aria minacciosa. Così che, invaso dal terrore e divorato dal suo inconscio, fuggiva fuori quasi tutte le notti correndo e urlando come un forsennato: « Aiuto, aiutatimi..à spirduta, c’è à spirduta ... aiutatimi..mi voli cu jdda...»

Che davvero gli compariva davanti lo spirito della moglie, chi può dirlo, di sicuro i sensi di colpa e il rimorso della sua coscienza furono talmente forti e reali che il pover’uomo la notte non aveva più pace, e quell’urlo che ogni notte squarciava il silenzio di quei cortili («à spirduta, aiuto, à spirduta») diventò come una sigla per quella zona. Ed una notte queste visioni dovevano essere davvero più reali, tanto che all’ennesimo grido: «vattinni, spirduta, vattinni », il pover’uomo cadde pesante a terra senza rialzarsi più. Un infarto fulminante l’aveva infatti colpito, ponendo così fine alle sue sofferenze. In fondo, seppur  burbero e focoso, cumpari Janu era un brav’uomo, e per le sue umili spalle da pescatore, quel peso di quel gesto da lui compiuto accecato dalla gelosia, doveva essere davvero troppo pesante da sopportare. E lo pagò a caro prezzo!

Da allora quell’angolo di Ortigia venne chiamato così, con il nome con cui tutti oggi lo conosciamo. A’ spidduta. Anche  -se in verità quello spirito non l’ha mai visto nessuno.





Duccio DI STEFANO


Duccio Di Stefano nasce a Siracusa, il 04/04/1969. Sposato con Ivana e padre di Bianca e Susanna, vive a Siracusa dove insieme alla moglie produce e commercializza manufatti di maioliche artistiche decorate a mano. Da sempre appassionato degli scrittori"carnali", di origine Mediterranea e latina in generale, scrive soprattutto poesia e prosa legata alle sue origini e alle tipicità del suo territorio. Inizia scrivendo per testate giornalistiche e gruppi editoriali locali, pubblica poi poesie e racconti su alcune antologie edite dalla collana Riflessi prima e dal Concorso Letterario Internazionale Inchiostro e Anima poi. Grande tifoso della squadra di calcio della sua città, il Siracusa, presta la sua collaborazione al quindicinale siracusano LA CIVETTA di Minerva, nella quale cura la redazione sportiva ma sovente vi scrive pure di temi sociali, di integrazione e delle problematiche del suo quartiere, la Borgata. Nell'aprile del 2018 pubblica il suo primo romanzo, Angelo di Pietra, edito dalla Carthago Edizioni, che è stato presente al Salone del libro di Torino dello stesso anno e successivamente gli fa attribuire svariati premi, portandolo su e giù per l'Italia per le relative presentazioni e mostre letterarie.



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